Il collega e già direttore editoriale di Teleacras, Gero Micciché, ricorda così il professor Calogero “Lillo” Sciortino, per decenni apprezzato e stimato docente al Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, appena scomparso.
Quando ho appreso la notizia, ieri sera, ho sentito un treno fischiare dai recessi lontani della memoria. Ferroviaria era la prima immagine che hai consegnato a quella classe di primo liceo in cui sedevo fra gli ultimi banchi: ci hai detto che da quel giorno saremmo saliti tutti su un treno per compiere un viaggio lungo tre anni, e che da quel viaggio ne saremmo usciti tutti cambiati.
Stavi già infondendoci le prime nozioni presocratiche senza neanche scomodare Eraclito, ma quel giorno ancora non sapevamo ancora che non era possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume.
Era il primo giorno di Liceo, ma non è quello il primo ricordo che ho di te. La leggenda del professore Sciortino riecheggiava già nei corridoi di quel ginnasio rumoroso e un po’ nomadistico che in due anni vide la mia classe alternarsi in almeno tre sedi, regalandoci qualche mese nella sede di via Empedocle, e fu quella a offrirmi la prima occasione di parlarti: a causa del mito di Atlantide avevo cominciato ad avvicinarmi alla filosofia al ginnasio, avevo approcciato al Crizia di Platone lasciandomi rapire dalla suggestione delle immagini, storie di Dei, guerre e inabissamenti; dalla libreria di casa avevo poi rubato il Reale-Antiseri di mia sorella maggiore, e da lì è stato un continuo tentativo di abbeverarmi alle fonti.
Ero alla ricerca di guide, di maestri, ed è solo per questo che un giorno sono riuscito a superare la mia allora insormontabile timidezza, introdurmi nel cerchio di ragazzi che puntualmente ti circondavano durante la ricreazione e chiederti un consiglio. C’era un po’ di stupore e divertimento nel sentirmi parlare senza troppa cognizione di filosofi greci e – rendendoti conto del moto tarantolato con cui mi aggiravo in quegli ostici territori – mi hai fornito la prima bussola: leggi Il Mondo di Sofia, lo ha scritto un professore norvegese, Jostein Gaarder, ti introduce alla filosofia nel giusto ordine. E soprattutto lascia perdere Nietzsche, non lo capiresti adesso, e forse non lo capirai neanche tra tre anni.
Dovetti ripetermi il titolo del libro in mente più volte fino al ritorno in classe per poterlo appuntare e poi chiederlo al libraio.
Di quel romanzo riprendesti poi un’immagine nei primi giorni di lezione, quella del prestigiatore che regge il coniglio estratto dal cilindro, raccontasti che gli umani altro non sono che piccole pulci acquattate nella pelliccia del roditore, che i più trovano un angolo felice, aggradante, e lì si fermano a riposare per un’esistenza intera, mentre i filosofi si armano di corda e moschettone e cominciano un’irta scalata sui peli del coniglio, con l’intento di arrivare in cima, e guardare negli occhi il Grande Prestigiatore.
No, Lillo, non lo abbiamo dimenticato, nessuno potrà scordare la passione in ogni sillaba, né lo sconforto che ti prendeva quando non riscontravi l’impegno che ti aspettavi, o se mostravamo lassismo o superficialità (nessuno voleva deluderti, e finiva che ci vergognavamo, come sempre accade nei rapporti basati sul profondo rispetto) e nessuno potrà dimenticare quel tuo sguardo sognante, volto a un cielo di carta in cui anche a noi – alunni ingenui e imberbi – sembrava che le tue parole potessero dar forma all’Assoluto hegeliano, al Noumeno kantiano e a quel Velo di Maya che avremmo voluto squarciare d’un colpo. Lo ammiravamo con te, quel cielo metafisico, mentre a fendenti di parole vi tracciavi sopra la storia del pensiero e quella dei fatti umani, quella Storia che dicevi essere materia molto più complessa da comprendere rispetto alla Filosofia (e adesso che l’esperienza mi ha fatto testimone di quanto riluttante sia l’Umanità a imparare dal passato capisco il senso di quelle considerazioni).
Mi hai detto nei primi giorni che uno dei tuoi obiettivi sarebbe stato “scolarizzarmi”, conferire ordine a un approccio caotico e un po’ anarchico che mi caratterizzava, e credo fosse anche il senso del tuo primo “regalo”, quel libro di Gaarder che metteva tutto in fila in termini di senso, tempo e metodo. Anni dopo, dopo la prova orale dell’esame di Stato mi hai detto di avermi visto cresciuto, ma che non eri del tutto soddisfatto di quel percorso, sorridendo mi hai confessato che credevi di non aver centrato un obiettivo: scolarizzarmi, appunto, ma che forse andava bene così. Eri arrivato alla conclusione – hai aggiunto – che la mia forza fosse nelle intuizioni estemporanee e nei sentimenti che mi guidavano, e che se un ordine preordinato, canonico, non mi andava bene, avrei dovuto costruirmene uno da solo, per non disperdere il mio potenziale. Sarebbe stata una strada molto faticosa, difficile, ma mi avrebbe ripagato, se ci avessi messo impegno.
Non scorderò mai quel breve discorso, avevi ragione anche lì, e c’è voluto un percorso partito dallo studio della legge e dell’economia e finito molti anni dopo nello sviluppo di videogame e narrazioni digitali (territori lontanissimi) per rendermene conto. Il treno era giunto a destinazione e, come in quella novella di Pirandello, ha fischiato per condurmi altrove, in direzione ostinata e contraria.
Da quel giorno avrei anche potuto chiamarti Lillo, hai concluso, del resto da quel momento per me non eri più soltanto un professore.
Come a tutte le persone a me care, neanche a te sono riuscito a dare un ultimo saluto, ammesso che questa locuzione abbia senso: mi consola il pensiero di averti rincontrato più volte, di aver preso la scusa di darti brevi manu una nuova copia della rivista letteraria che negli anni universitari avevo fondato a Milano, El Aleph, e di averne approfittato anche negli anni in cui sono tornato in Sicilia per guidare Teleacras, ma a posteriori mi sembra sempre di averti visto troppo poco. Tutto sembra troppo poco, ogni parola, ogni incontro, quando si tratta di qualcuno che ha tanto da dare.
E tu hai donato molto, caro Lillo: lo sento nei ricordi dei miei compagni, lo leggo nelle loro parole di cordoglio, nei ricordi che hanno condiviso in queste ore, lo colgo dagli aneddoti che mi raggiungono anche qui, lontano dalla Sicilia, lo percepisco in tutti quelli che sono passati dal corso D nei vari anni e che ricordano ancora le ore spese ad ascoltarti come imprescindibili momenti di crescita.
Hai dato senso alla figura del Professore, colui che si fa guida, maestro, forgiatore di spiriti e di coscienze ancora in divenire, e non mero propalatore di dottrina e nozioni, ed è di te che parlerò ogni volta che qualcuno chiederà di cosa ha bisogno oggi l’umanità – non di eserciti, non di politici, non di manager eclettici, ma di Maestri, Professori, Tafani di menti altrimenti sopite.
Il tuo viaggio è stato lungo e intenso, Lillo, anche il tuo treno ha adesso scandito l’arrivo all’ultima stazione; ma sta certo che quel percorso non finisce, non finirà, hai insegnato a migliaia di futuri uomini e donne a costruire binari robusti e solidi vagoni, ne hai corroborato le menti e forgiato le coscienze, e nei cuori di ognuno di noi – tuoi alunni, discepoli, studenti – il soffio vitale di quella lezione continua a fischiare, e quei treni non smetteranno mai di viaggiare sulle rotaie dei tuoi insegnamenti.