C’è un cinema che non grida, che non si batte i pugni, ma si insinua lento. Un cinema che, come una vecchia fotografia sbiadita, riesce a evocare l’eco di vite lontane, catturando frammenti di un passato che ci appartiene e che, nello stesso tempo, ci sfugge. Vermiglio, secondo lavoro di Maura Delpero, si pone esattamente in questo solco: un affresco intimo e universale che trasforma la quotidianità di un piccolo villaggio alpino in una lente per osservare le tensioni invisibili tra tradizione e modernità, tra autorità e ribellione, tra amore e solitudine. Come Ermanno Olmi, cui il film implicitamente si rifà, Delpero riesce a far parlare i silenzi, a dar voce ai dettagli, a costruire un racconto che vibra di autenticità senza mai scivolare nel banale.
Vermiglio è un dramma storico ambientato negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, in un remoto villaggio alpino italiano. La storia ruota attorno alla famiglia Graziadei, guidata da Cesare (Tommaso Ragno), un rispettato maestro di scuola che esercita un’autorità quasi assoluta su nove figli, con un decimo in arrivo. La vita quotidiana della famiglia si dipana tra le rigide tradizioni locali e le crescenti tensioni personali, fino all’arrivo di Pietro (Giuseppe De Domenico), un disertore siciliano accolto con iniziale diffidenza dalla comunità ma destinato a intrecciare il suo destino con quello di Lucia (Martina Scrinzi), la figlia maggiore di Cesare.
Lucia e Pietro iniziano una relazione romantica che culmina in un matrimonio. Tuttavia, la serenità familiare viene scossa quando Pietro parte per tornare in Sicilia, promettendo di scrivere, ma i mesi passano senza alcuna notizia. La sua assenza precipita Lucia in una crisi personale che porta la narrazione verso i temi della solitudine, delle aspettative sociali, del conservatorismo familiare e della resistenza individuale che fa da contrappunto a quella collettiva.
Il punto di forza del film è probabilmente nella bellissima fotografia, curata dal russo Mikhail Krichman, noto per il suo lavoro con il regista Andrey Zvyagintsev (The Banishment, Elena e The Return, che si aggiudicò il Leone d’oro nel 2003). Krichman cattura l’essenza del villaggio alpino con un uso magistrale di palette cromatiche smorzate e inquadrature meticolosamente composte. Ogni fotogramma sembra un dipinto, immergendo lo spettatore nella durezza e nella bellezza isolata del paesaggio innevato. Anche questo approccio ci riporta a Ermanno Olmi, che nei suoi lavori migliori come L’albero degli zoccoli ha saputo trasformare il quotidiano rurale in un affresco universale.
Vermiglio non si limita a un’estetica visiva evocativa, ma cerca di esplorare dinamiche sociali e psicologiche attraverso una narrazione che alterna momenti di lirismo e dettagli crudi. Cesare, il patriarca, rappresenta un microcosmo delle gerarchie autoritarie dell’epoca, il cui potere si estende non solo alla sua famiglia ma anche alla comunità. Questo controllo assoluto è esemplificato dalla scena in cui acquista dischi di musica classica, sostenendo che rappresentino un “cibo per l’anima”, in contrasto con i bisogni materiali della famiglia. È un momento che sottolinea sia la sua arroganza sia la tensione tra aspirazioni culturali e realtà domestica.
Vermiglio si sviluppa in una struttura tripartita, ciascun atto concentrato su un aspetto diverso della vita della famiglia Graziadei.
Il primo atto introduce Cesare, patriarca autoritario e figura centrale del villaggio. Delpero adotta uno stile osservativo, concentrandosi sui rituali quotidiani della famiglia e del villaggio. Sebbene questa scelta aggiunga autenticità, sacrifica il dinamismo narrativo, rendendo l’inizio eccessivamente statico. Anche qui emerge l’eco di Olmi, la cui narrazione spesso privilegia la lentezza e la contemplazione.
Il secondo atto si focalizza su Lucia e sulla sua relazione con Pietro. Questo segmento introduce importanti conflitti emotivi, esplorando i temi dell’amore proibito e dei pregiudizi sociali. Tuttavia, la relazione tra i due protagonisti appare poco sviluppata, lasciando Pietro come una figura funzionale alla trama piuttosto che un personaggio a tutto tondo. È interessante notare come il personaggio di Pietro, un outsider per cultura e provenienza, metta in evidenza i pregiudizi e le barriere regionali del tempo, un tema che avrebbe meritato maggiore esplorazione.
Il terzo atto, incentrato sulla crisi di Lucia dopo la partenza di Pietro, rappresenta di certo il momento più toccante del film. La sua discesa nell’isolamento e il confronto silenzioso con la madre di Pietro in Sicilia sono gestiti con sensibilità, ma l’assenza di una vera catarsi lascia un senso di incompiutezza emotiva. Anche in questo caso, Delpero sembra seguire una tradizione narrativa che richiama Olmi, specie nella scelta di un finale aperto, che lascia lo spettatore riflettere. L’attenzione ai dettagli, come il semplice gesto di Lucia che tiene in braccio il bambino durante il viaggio, accentua il carattere intimista del racconto.
Al centro del film vi è l’esplorazione dell’intersezione tra tradizione, autorità e “agency” individuale. Cesare incarna il potere patriarcale dell’epoca, con il controllo che esercita sulla famiglia bilanciato tra benevolenza e tirannia. Le dinamiche familiari sono punteggiate da momenti di ribellione, come l’esplorazione della sessualità di Ada o il risentimento di Dino verso il padre, ma questi sottotemi rimangono poco sviluppati, riducendone l’impatto. La giovane Ada, per dire, è un personaggio che avrebbe potuto incarnare una rottura più significativa con le norme sociali del tempo, ma il suo arco narrativo rimane in gran parte abbozzato.
Delpero approfondisce anche il ruolo delle donne, evidenziando il peso ciclico della maternità imposto ad Adele (Roberta Rovelli) e le limitazioni sistemiche di quell’epoca. Sebbene l’arco narrativo di Lucia sia emozionante, tende a enfatizzare la sua vittimizzazione, lasciandole poca agency nelle scelte finali. La sottotrama di Ada, che suggerisce una potenziale riscoperta queer, è affascinante ma abbozzata, riducendo il suo potenziale. Anche il personaggio di Dino, il fratello maggiore ribelle, porta con sé una carica emotiva che si esprime in pochi momenti chiave, ma manca di una piena integrazione narrativa.
La regia di Maura Delpero si distingue per la sua compostezza e attenzione ai dettagli. La sua esperienza documentaristica emerge chiaramente nella rappresentazione autentica dei rituali comunitari e delle interazioni familiari. Tuttavia, questo approccio osservativo a volte limita l’intensità drammatica, attenuando l’impatto di momenti cruciali. La decisione di lavorare con attori non professionisti per alcuni ruoli aggiunge autenticità alla messa in scena, ma in alcuni casi il rischio di rigidità nelle performance è evidente.
Il cast offre interpretazioni uniformemente eccellenti. Tommaso Ragno spicca per la complessità con cui ritrae Cesare, un personaggio contraddittorio e stratificato. Martina Scrinzi brilla nel ruolo di Lucia, trasmettendo emozioni profonde attraverso espressioni sottili. Rachele Potrich è molto appropriata nei panni di Ada, incarnando con naturalezza la curiosità e la ribellione adolescenziale. Anche gli attori più giovani, come Anna Thaler nel ruolo di Flavia, contribuiscono a creare un microcosmo familiare credibile e vivido.
Il ritmo del film soffre di un montaggio che alla lunga risulta disomogeneo. Sebbene il tempo deliberato si adatti allo stile osservativo, alcune scene si prolungano senza apparente ragione, diluendone l’efficacia complessiva.
Il paesaggio sonoro è sobrio ma efficace, con rumori ambientali che arricchiscono l’immersione. Tuttavia, l’uso della musica —in particolare di Vivaldi e Chopin— non mi è parso sempre felice, nelle singole scelte. La ricostruzione meticolosa dell’Italia rurale degli anni ‘40 è impressionante, con costumi e scenografie che rafforzano l’autenticità storica. Tuttavia, la raffinatezza estetica del film talvolta contrasta con la rappresentazione della privazione e delle difficoltà.
Pur eccellendo nella creazione di un’atmosfera visivamente straordinaria, Vermiglio manca di audacia narrativa. La riluttanza ad approfondire alcuni temi più oscuri —vedi la marginalizzazione di Pietro e la sessualità di Ada— appiattisce l’opera, forse per prudenza. Inoltre, la mancanza di un arco narrativo coeso diminuisce la risonanza emotiva, lasciando incompleti i percorsi dei personaggi.
La brillantezza tecnica del film finisce per superare la sua narrazione, creando un’opera intellettualmente stimolante ma emotivamente tiepida.
Pur godendo di elegante ricchezza visiva, Vermiglio a volte sfocia in un eccesso di estetizzazione. Alcuni momenti si dilungano inutilmente su immagini evocative, rallentando il ritmo narrativo e rischiando di sottrarre enfasi alla progressione della storia. Pur essendo le montagne un elemento cruciale dell’ambientazione, il loro ruolo simbolico nel racconto rimane in gran parte sottoutilizzato.
Vermiglio è un film visivamente affascinante e tematicamente ricco che mette in mostra il talento di Maura Delpero nell’evocare un tempo e un luogo specifici. L’esplorazione delle dinamiche familiari e delle strutture sociali è sfumata, supportata da interpretazioni eccellenti e da un artigianato meticoloso. Tuttavia, le carenze narrative e la riluttanza ad approfondire i suoi temi impediscono al film di raggiungere il suo pieno potenziale. Un’opera meritevole di riconoscimento (tiferemo comunque per Vermiglio, agli Oscar) ma che promette più di quanto effettivamente offra.