Siamo abituati a pensare al sorriso come sintomo di gioia, conforto e accoglienza. Fin da quando leggevamo le favole, abbiamo imparato che il sorriso e la risata hanno un lato oscuro: i cattivi ridono spesso, il male sorride quando è in procinto di compiere una qualche malvagità. Sorridere può essere un gesto di calore, ma anche il disegno di una maschera inquietante. Il sorriso può risultare disturbante. Questa ambivalenza lo rende un tema affascinante per la narrazione.
Nei film horror, il sorriso è spesso usato per esplorare temi di repressione emotiva, dissonanza sociale e trauma psicologico. In un sorriso malvagio vediamo riflessi i lati oscuri della nostra stessa umanità: la capacità di mentire, di mascherare il dolore, di nascondere il male.
Esiste un punto di tensione tra il sorriso e il terrore. Il sorriso che si deforma, che si spinge oltre il confine del bene per diventare una maschera perversa. La serie horror Smile si inserisce in questo spazio liminale, tentando di esplorare non solo il potere evocativo del sorriso nella sua versione più distorta, ma anche le sue implicazioni simboliche come gesto umano che cela e rivela, al tempo stesso, i demoni annidati dentro l’umano.
Smile 2, sequel diretto da Parker Finn, prende il testimone dal primo capitolo, spostandosi dal contesto medico a quello dello show business, e dal trauma individuale verso una dimensione collettiva. La protagonista, Skye Riley, interpretata da una convincente Naomi Scott, è una popstar che incarna le contraddizioni della celebrità contemporanea. Icona adorata dal pubblico, ma fragile e spezzata al suo interno, Skye vive in un mondo che la costringe a indossare maschere su maschere, tanto da non poter più distinguere il vero dal falso. Qui il film mette un primo, interessante accento: il sorriso diventa anche metafora ultima dell’ipocrisia sistemica dello star system, un gesto svuotato di autenticità e trasformato in un obbligo performativo.
Finn, di cui si può ricordare una certa efficacia stilistica del primo Smile (che era però già poco convincente sotto molti altri aspetti, e quindi globalmente tutt’altro che solido), tenta di ampliare il respiro della narrazione con un’ambientazione che si presta a riflessioni sul voyeurismo e la performatività della società contemporanea. Lo spazio scenico del palco, con le sue luci e i suoi riflettori, viene contrapposto ai luoghi più intimi e isolati della protagonista: stanze d’albergo sterili, backstage claustrofobici, spazi che, pur essendo pieni di vita apparente, si trasformano in cattedrali del vuoto emotivo.
Tuttavia, la regia si limita spesso a un’estetica prevedibile. Finn utilizza una grammatica visiva che, pur essendo formalmente buona, non riesce mai a sorprendere davvero. I jumpscare sono accademici e quasi meccanici, privi di qualunque elemento di rottura. Il primo capitolo sfruttava quantomeno il fattore novità. Smile provava a costruire una tensione psicologica che si insidiava lentamente, mentre qui l’orrore sembra seguire un copione già scritto, con una prevedibilità che spegne la potenza disturbante dell’immagine.
L’elemento forse più interessante del film è il tentativo di espandere il concetto di trauma, portandolo dal personale al collettivo, come dicevo. Nel primo film il trauma era un fardello intimo e individuale, qui diventa un fenomeno sociale, amplificato dai meccanismi del successo e del consumo mediatico. Skye Riley, in questo senso, non è solo una vittima di un’entità soprannaturale, ma anche di un sistema che esige da lei una perfezione costante, trasformandola in un simulacro vivente.
Il sorriso inquietante che perseguita Skye è la materializzazione di questa pressione. Non è più solo un’entità malvagia, ma un simbolo del sistema che la consuma. Tuttavia, questa lettura più stratificata del film non riesce a emergere del tutto, soffocata da una narrazione che si accontenta di ripercorrere le dinamiche classiche del genere horror senza osare davvero.
La performance di Naomi Scott è uno dei pochi veri punti di forza del film. L’attrice riesce a incarnare la fragilità e la forza di Skye, offrendo una prova che trascende i limiti del copione. I suoi sguardi, i suoi gesti, persino il modo in cui si muove nello spazio, parlano di un personaggio che lotta disperatamente per mantenere un senso di sé in un mondo che sembra volerla divorare.
Scott riesce a rendere credibile il conflitto interiore di Skye, trasformando una figura potenzialmente stereotipata in una donna con maggior complessità, capace di evocare empatia anche nei momenti più banali della trama. È grazie a lei che il film riesce, almeno in parte, a mantenere una connessione emotiva con lo spettatore.
Nonostante alcuni meriti, Smile 2 non riesce a convincere del tutto. La sua ambizione di esplorare temi più ampi, come la pressione della fama o la natura performativa dell’identità, rimane in superficie, senza mai trovare una forma narrativa o visiva davvero incisiva. Il film si accontenta di reiterare formule già note, senza rischiare alcun salto che avrebbe potuto renderlo interessante. La sceneggiatura segue schemi narrativi già visti, senza introdurre innovazioni significative.
In questo senso, Smile 2 si configura come un’altra occasione mancata: un sequel che cerca di espandere l’universo del primo film (che sprecava già le premesse di un concetto interessante, la valenza ambigua del sorriso e la sua carica simbolica di cui parlavo all’inizio) ma che finisce per rimanere intrappolato nei suoi stessi limiti. Il primo Smile provava a essere un’esplorazione (anche lì claudicante) della psiche umana, mentre questo secondo capitolo si limita a essere una ripetizione prolissa ed edulcorata di una serie di stilemi già visti e in questo caso anche ridondanti.
Un aspetto che infatti appesantisce ulteriormente la pellicola è la sua durata: con oltre due ore di proiezione, Smile 2 si dilunga eccessivamente rispetto al contenuto narrativo offerto. Molte sequenze risultano in sovrappiù, altre avrebbero beneficiato di un montaggio più snello, capace di mantenere alta l’attenzione dello spettatore, di altre ancora si poteva davvero fare a meno: il concetto era già passato.
Siamo davanti a un film che non riesce a evitare l’uso di cliché tipici del genere horror, rendendo prevedibili molte delle sue svolte narrative, un’opera che manca di originalità e profondità. Doversela sorbire per 132 minuti mi pare un po’ troppo.
Smile 2 è un film che sorride al pubblico in sala, ma è un sorriso che non ferisce né inquieta, non scuote, non lascia il segno. È un’opera che fallisce nell’intento di risultare incisiva e disturbante, ma che si limita a essere convenzionale e priva di quel minimo di innovazione che si vorrebbe da un sequel. Un film che, come il sorriso iconico sullo schermo, cela sotto la superficie un vuoto che avrebbe potuto essere colmato con una narrazione più audace e una regia più coraggiosa.
Rimane un’esperienza gradevole, ma dimenticabile, priva di quella potenza viscerale che caratterizza il buon cinema horror.