A proposito del discorso sulle fiabe (che di quello dovremmo interessarci, non di frasi estrapolate e riportate dai giornali senza nemmeno uno straccio di video, come successo negli ultimi giorni con Paola Cortellesi) e dell’opportunità o meno di variarle, mi pare buono cogliere l’occasione per aggiungere ai già (da molti) citati saggi di Pinkola Estes, Vinci, Calvino, Marchetta e il sempreverde Propp, “L’altra metà delle fiabe”, un librettino pubblicato da uno dei miei editori italiani preferiti, Abeditore Editore, che contiene 3 versioni di Charles Perrault tradotte da Carlo Collodi (“La bella addormentata”, “Il gatto con gli stivali” e “Cenerentola”) e le 3 originali che l’autore francese letteralmente “saccheggiò” da “Lo cunto de li cunti” (o “Pentamerone”) di Giambattista Basile (“Sole, Luna e Talia”, “Cagliuso” e “La Gatta Cenerentola”), tradotte dalla curatrice Antonella Castello.
Leggerle in parallelo è molto interessante per capire quale fosse fin dal XVII il procedimento di “appropriazione” e rinarrazione di storie che fino ad allora avevano avuto ampia diffusione soprattutto sul piano orale, e che nell’ultimo secolo hanno conosciuto notorietà nella versione Disney.
Già sin dalla “Bella addormentata” vediamo che Perrault fa comparire 7 fate invece che 3; la maledizione del fuso viene lanciata da una vecchia fata cattiva, che nel resto del racconto scompare: la villain della fiaba di Perrault non è infatti Malefica (introdotta da Disney nel cartone animato) ma addirittura la mamma del Principe, una famelica orchessa sposata dal Re per mero interesse economico. Il Principe fra l’altro sveglia la bella (sedicenne) semplicemente entrando nella stanza e accostandosi educatamente al letto, dopo aver saputo che incombeva una maledizione su di lei, motivo per il quale si era spinto oltre la fitta vegetazione a protezione del castello.
Nella precedente versione di Basile questa dinamica è molto più terribile: il Re, alla nascita della figlia Talia, non chiama fate ma sapienti e indovini che preconizzano una grande disgrazia su di lei per mezzo di una lisca di lino. La ragazza da adulta si punge e letteralmente “cadde morta a terra”. Il padre la lascia su una sedia di velluto come se fosse imbalsamata, fa chiudere la magione e va via (in Perrault è la fata che ha lanciato la contromaledizione ad addormentare tutto il resto della corte, tranne Re e Regina, e far sì che le cose rimangano come erano fino al risveglio della principessa).
A risvegliarla stavolta non è un Principe, e in qualche modo nemmeno il Re che entra incuriosito nella dimora e trova la bella immobile su una sedia, la crede addormentata (e qua il narratore, che l’aveva prima data per morta, chiarisce che è sotto incantesimo) e compie uno degli atti più biechi che potreste immaginare, non solo in una fiaba:
“visto che la fanciulla non si svegliava, per quanto facesse e gridasse, accecato e infiammato dalle sue bellezze, la portò in braccio fino a un letto e lì colse i frutti dell’amore; poi la lasciò coricata e se ne tornò nel suo regno, dove per molto tempo non si ricordò di quello che era successo.”
Il Re violenta e deflora la vergine Talia, la quale partorisce due bimbi (Sole e Luna) che, nel cercare i capezzoli materni per allattarsi, succhiano invece la punta del dito dove stava la lisca di lino e la tirano fuori, rompendo l’incantesimo. La donna si sveglia e comincia a nutrire entrambi dal seno, pur non spiegandosi come tutto questo sia potuto accadere. Il Re era in tutto questo era pure sposato, e scopre solo per caso di avere dei figli, quando un giorno – ricordandosi della bella addormentata così, de botto – torna da lei, magari intento a concedersi un bis, ma la trova sveglia coi bimbi. Senza vergogna, anzi piuttosto fiero, le racconta tutto, col risultato che “strinsero amicizia e un legame sincero” (che uno sconosciuto violenti una donna in stato di incoscienza e la lasci incinta non appare affatto problematico).
Il finale delle due fiabe vede due villain femminili diversi: nella versione perraultiana, il Principe e la Principessa generano due figli (Aurora e Giorno) in maniera consensuale, ma lui porta la famiglia al proprio castello solo una volta diventato re, alla morte del padre; la madre del Principe è un’orchessa, dicevamo, e seguendo la propria natura le viene voglia di mangiare nuora e nipoti mentre il figlio è in guerra lontano. Ordina al cuoco di cucinarli a uno a uno, ma ogni volta il servo (mosso da pietà) affida i bimbi a sua moglie e cucina al loro posto un animale, ingannando la padrona.
Nella versione di Basile, è la moglie del Re a far la parte della cattiva, mossa da gelosia: scopre la tresca grazie al segretario, e ordina che i due bambini vengano rapiti, cucinati e dati in pasto all’ignaro marito. Anche qui il cuoco è mosso da pietà e affida i figli alla moglie, di nascosto, servendo al Re degli animali.
Se nella fiaba di Perrault il cuoco nasconde anche la Principessa, in quella di Basile la Regina la fa portare direttamente al castello quando il marito non c’è per darle fuoco su una pira.
Al contrario, nella fiaba di Perrault l’orchessa scopre l’inganno del cuoco e condanna tutti (bimbi, principessa, cuoco e moglie) a morire in una vasca “di vipere, rospi, ramarri e serpenti” fatta preparare ad hoc.
In entrambe le fiabe, è il ritorno del Re a impedire la strage, in un caso ordinando che la moglie sia gettata nel fuoco al posto di Talia, mentre nell’altro è l’orchessa a suicidarsi per essere stata colta sul fatto.
Pur essendo anteriore a quella di Perrault, ci sarebbe da aggiungere che la Talia di Basile ha vari elementi in comune con la Zellandine del romanzo cavalleresco “Roman de Perceforest“, scritto 3 secoli prima, ma pare che ci fosse una variante della storia che veniva tramandata in Basilicata, e avendo il “Pentamerone” attinto da molte storie popolari italiane è probabile che al narratore campano sia giunta quella versione.
Disney prende probabilmente elementi qua e là per il suo lungometraggio, includendo la “Rosaspina” delle “Fiabe del focolare” dei Grimm – in cui i fratelli tedeschi fecero una importante scelta mediana rispetto alle due precedenti, introducendo l’espediente del bacio come antidoto all’incantesimo – e la versione di Čajkovskij, nel cui balletto la fata cattiva ha finalmente un nome (Carabosse) e maggiore spazio, risultando probabilmente la più vicina antesignana alla Malefica di disneyana memoria.
Di una sola fiaba abbiamo così tante (autorevoli) varianti che viene da sorridere quando si sente invocare la “tradizione” per osteggiare ogni variazione alla materia fiabesca.