Leggendo MANIAC sono finalmente riuscito a comprendere le ragioni del consenso (di critica) dietro a questo libro pubblicato di recente da Adelphi: Benjamin Labatut affronta innanzitutto i temi giusti nell’anno giusto (il 2023), quello delle intelligenze artificiali e quello in cui la figura di Oppenheimer è tornata alla ribalta grazie a Nolan.
Imbroccare il tema non basterebbe comunque a giustificare da sé le lodi sperticate che ho letto in giro, e che l’opera ovviamente merita: pur non reputandolo – come alcuni – il libro più bello del 2023, MANIAC rappresenta senza dubbio un’operazione notevole.
Il testo di Labatut ruota per 2/3 principalmente attorno alla figura di János Lajos Neumann (aKa John Von Neumann) genio matematico che insieme ai vari Szilárd, Teller, Wigner e soci fu parte di quel clan ungherese che nutrì corposamente di idee e calcoli il Project Manhattan, e che contribuì a enormi scoperte nei più disparati campi della scienza e della fisica. La figura del geniale magiaro viene ricostruita tramite le testimonianze (finzionali) di chi lo ha conosciuto, dai già citati colleghi connazionali a Nils Bohr, da Richard Feynman al dimenticato Nils Aall Barricelli fino alla moglie e alla figlia, che furono entrambe programmatrici; la struttura ricorda narrazioni “a pannelli” come quella che si riscontra in Nel bosco di Ryūnosuke Akutagawa, per citare il più recente racconto con una simile architettura che mi viene alla memoria; a differenza dell’autore nipponico, Labatut usa l’espediente in maniera abbastanza arbitrario e rischia di sottrarre un po’ di unitarietà al testo, ma il contenuto emerge, in MANIAC probabilmente ci sarebbe stato tanto, troppo da raccontare, e scegliere specifici testimoni (i quali raccontano in prima persona senza un’apparente movente, mentre nel racconto di Akutagawa si tratta di deposizioni rilasciate all’autorità giudiziaria) permette al narratore di calibrare la prospettiva e selezionare attentamente aneddotica e temi.
Labatut non si cura molto della differenza di voci, e probabilmente è un bene perché l’operazione sarebbe stata altrimenti titanica e di difficile riuscita; della sua prosa mi piace molto l’ipotassi tortuosa, il flusso narrativo che a tratti straripa, le parole che in certi frangenti si fanno una schiera neutroni rapidissimi in reazione termonucleare, ci si inabissa bene e l’autore cileno è bravo anche a riannodare le fila, una volta tornati sulla superficie del tema principale.
La forma è a dirla tutta uno dei punti forza del testo di Labatut, più dell’architettura, che come avrete capito non mi ha convinto del tutto: non mi azzarderò a definire MANIAC infatti un “romanzo”, qui siamo di fronte a un risultato combinatorio ma non come lo intenderebbe Queneau, il fondatore dell’OuLiPo, ma più come lo intenderebbe Kamprad, il fondatore di IKEA: dopo una fantasmagoria di testimonianze deliberate, la storia di Von Neumann si chiude e se ne apre un’altra totalmente diversa, quella che riguarda DeepMind, Gemini e l’IA applicata al Go.
Questa terza e ultima parte è stata per me ancora più interessante perché – se già parlando del MANIAC si intravede come le simulazioni e i videogiochi siano il campo naturale di sperimentazione delle logiche più strutturate per le AI, essendo stato il primo supercomputer a battere un umano nel gioco degli scacchi – con AlphaGo si racconta di quanto gioco e Intelligenze Artificiali vadano a braccetto in termini di ricerca e sviluppo: un mio collega alcuni mesi fa non a caso è proprio approdato in Gemini, il cui stesso CEO e fondatore (Demis Hassabis) è un ex programmatore di Lionhead, Bullfrog nonché fondatore di Elixir Studios, creatori di Republic: The Revolution e Evil Genius, videogame che sono stati campo fertile per il suo studio dell’AI.
Del resto noi sviluppatori di video game tendiamo a creare mondi con una loro intelligenza ordinatrice, migliorare le AI nei nostri lavori, nelle simulazioni, significa rendere più credibile il mondo di gioco grazie a NPC più solidi. Non a caso il tema è uno dei nostri principali interessi; e vale anche il contrario, visto come le aziende di AI stanno facendo la spesa dalla game industry, nella ricerca di personale.
L’epopea che racconta di come le AI abbiano surclassato in breve tempo grandi campioni di scacchi e di Go (antichissimo gioco strategico cinese) è interessantissima proprio perché dà a Labatut modo di spiegare anche come funzionino simili intelligenze, di parlare in maniera semplificata (ma efficace) di machine learning e di offrire alcuni squarci su un futuro che è già molto presente.
La terza parte, insomma, è un racconto per certi versi ancora più bello e coeso delle precedenti 240 pagine. Anche qui, di romanzesco c’è il tono, ma siamo più dalle parti del saggio narrativo a carica fortemente letteraria. Quello di AlphaGo è soprattutto un racconto diverso, al punto che mi viene da pensare che sia lì incluso come appendice: le 2 parti potrebbero infatti funzionare come libri separati, il comun denominatore è del resto solo l’AI, in declinazioni e contesti completamente diversi.
Sono contento di aver potuto leggerle in unico testo ma anche questa è una scelta che sottrae unitarietà a un testo che non è definibile un romanzo, ma che vi direi di recuperare al più presto, in questo 2024.