E’ iniziato a Caltanissetta il processo di secondo grado sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio. Il perché del ricorso in Appello.
E’ iniziato a Caltanissetta, innanzi alla Corte d’Appello presieduta da Giovanbattista Tona, il processo di secondo grado sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio contro il giudice Paolo Borsellino. Gli imputati, come già al cospetto del Tribunale, sono i tre poliziotti del gruppo “Falcone e Borsellino”, all’epoca diretto dal defunto Arnaldo La Barbera, ai quali è stato contestato il reato di concorso in calunnia aggravata dall’avere agevolato Cosa Nostra. Avrebbero “vestito il pupo”, ovvero “costruito” il falso pentito Vincenzo Scarantino, primo strumento del depistaggio delle indagini. A sostenere la contestazione è il neo Procuratore generale, Fabio D’Anna, e i sostituti Antonino Patti e Gaetano Bono. Sarà applicato dalla Procura anche il pubblico ministero Maurizio Bonaccorso, già pubblico ministero in primo grado, e ciò perché sono stati trasferiti i pm Stefano Luciani a Roma e Gabriele Paci a Trapani. Nella sentenza di primo grado, emessa dalla sezione del Tribunale presieduta da Francesco D’Arrigo il 12 luglio del 2022, è caduta l’aggravante mafiosa dell’avere agevolato Cosa Nostra per due dei tre poliziotti imputati, Mario Bo e Fabrizio Mattei, per i quali, di conseguenza, l’ipotesi di reato di calunnia non aggravata è stata dichiarata prescritta. Il terzo poliziotto, Michele Ribaudo, è stato invece assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Ebbene il Procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, e il pubblico ministero, Maurizio Bonaccorso, hanno impugnato la sentenza di primo grado e hanno depositato i motivi di appello. Tra le 98 pagine si legge: “E’ dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage anche di soggetti estranei all’associazione mafiosa Cosa Nostra, quindi l’esistenza di co-interessenze con centri di potere esterni alla mafia nella deliberazione della strage e nella successiva partecipazione alle fasi esecutive di appartenenti ad apparati istituzionali. E ciò non può nemmeno essere messo in discussione dal mancato accertamento di specifiche responsabilità penali”. E poi: “Prove del coinvolgimento di soggetti estranei alla mafia sono la tempistica della strage, che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa, e la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”. E poi: “Il depistaggio delle indagini sull’attentato, che portò all’incriminazione di innocenti e che è stato contestato ai tre imputati, è imputabile al dottor La Barbera, capo del pool che indagò subito dopo l’attentato. E ha avuto come finalità principale proprio quella di occultare le responsabilità esterne. La valutazione complessiva delle risultanze probatorie offre un quadro estremamente chiaro delle motivazioni che hanno spinto il dottor La Barbera a commettere gli abusi e i gravi illeciti nella conduzione delle indagini sulla strage: da un lato certamente anche la finalità di carriera ma soprattutto la necessità di mantenere le indagini su un livello tale da non disvelare i rapporti di co-interessenza che Cosa Nostra ha avuto nella ideazione e nella esecuzione della strage con ambienti ad essa esterni. Ciò contrasta con la ricostruzione della sentenza di primo grado che esclude che La Barbera abbia agito per favorire i boss e che porta all’esclusione dell’aggravante mafiosa anche per i poliziotti imputati e alla conseguente prescrizione dei reati a loro contestati. La fotografia del dottor La Barbera che le risultanze probatorie ci consegnano è quella di un ufficiale di polizia giudiziaria in realtà legato mani e piedi al servizio segreto civile, contrariamente a quanto sostenuto in maniera incomprensibile dal Tribunale. I poliziotti non solo erano consapevoli del piano di La Barbera: la loro è stata una totale adesione al disegno criminale perseguito”. E poi: “La lettura della sentenza manifesta le evidenti difficoltà dei giudici di primo grado nelle operazioni di analisi e valutazione dell’imponente materiale probatorio acquisito nel corso del processo. E la spia di tale difficoltà si ricava – oltre che da un estenuante ricorso al ‘copia e incolla’ delle precedenti sentenze che hanno definito i processi già celebrati sulla strage – da contraddizioni e profili di illogicità che talvolta la motivazione presenta”.