Mafia e religione: circa 80 anni di carcere sono stati inflitti a 39 imputati per l’inchino del Venerdì Santo innanzi all’abitazione del boss Francesco La Rocca a San Michele di Ganzaria.
La notte del 17 marzo del 1998, alle ore 2:30, a Porto Empedocle, al numero 9 di via Gramsci, nel quartiere del villaggio Bonocore, i Carabinieri citofonarono a casa di Luigi Putrone per arrestarlo. Rispose la moglie: “Mio marito non c’è. E’ all’albergo”. I Carabinieri corsero all’albergo poco distante dove lavorava il boss, ma lui saltò in tempo fuori dalla finestra della sua stanza e si nascose prima dai Messina a Villaseta e poi scappò verso oriente, a San Michele di Ganzaria, in provincia di Catania, e si rifugiò sotto la protezione dello “Zio Ciccio”, ovvero Francesco La Rocca, rispettato e venerato a tal punto che il Venerdì Santo del 25 marzo del 2016 la processione deviò tre volte per un “inchino” innanzi alla casa del capomafia, detenuto all’ergastolo al 41 bis. Adesso, a fronte delle indagini dei Carabinieri, circa 80 anni di reclusione sono stati inflitti, a 39 imputati dell’inchino, dal Tribunale di Caltagirone. I reati contestati dalla Procura antimafia di Catania sono, a vario titolo, turbamento di funzioni religiose e istigazione a delinquere. A 30 “inchinanti” è contestata anche l’aggravante mafiosa. Prescritto il reato di riunione pubblica non autorizzata. Più nel dettaglio, i giudici hanno condannato a 6 mesi ciascuno di reclusione 12 imputati, con pena sospesa, poi 2 anni e 7 mesi ad altri 11 imputati, poi 2 anni e 9 mesi per altri 8, e poi 3 anni per altri 8 ancora. Il Tribunale ha disposto anche il risarcimento spese al Comune di San Michele di Ganzaria che si è costituito parte civile. Le imputazioni sono emerse dai video registrati dai Carabinieri della stazione di San Michele di Ganzaria e della compagnia di Caltagirone: il fercolo del Venerdì Santo sarebbe stato costretto a deviare il percorso previsto dalla processione per – si legge agli atti – “farlo fermare davanti l’abitazione di Francesco La Rocca, consentendo alla moglie, che attendeva la sosta, di rendere omaggio al simulacro del Cristo morto. Alcuni dei portatori hanno atteso l’uscita da casa della donna e hanno inneggiato al capo clan La Rocca”. L’11 luglio del 2014 il giornalista e scrittore agrigentino, Matteo Collura, scrisse sul Corriere della Sera. Il titolo dell’articolo è “Mafiosi alle processioni del nostro Sud. Una lunga tradizione poco religiosa”. Collura all’epoca cavalcò l’onda dello sdegno sollevato dall’inchino della statua della Madonna durante una processione in Calabria. Matteo Collura scrive: “Si dimentica o si finge di dimenticare che nel Sud le processioni sono state sempre gestite dal popolo, quindi anche e inevitabilmente dalla mafia, dalla ‘ndrangheta e dalla camorra. In Calabria, come in Sicilia, le feste religiose non hanno niente di religioso nel senso che intenderebbe papa Francesco o chiunque sia convinto che la Chiesa cattolica le gestisca e le controlli. Storicamente, le feste religiose nel Sud d’Italia sono momenti liberatori, manifestazioni pagane in cui è la superstizione a dettare legge. Come stupirsi di quanto è accaduto in Calabria, se nei libri che raccontano la mafia quasi sempre è pubblicata una foto degli anni ’50 in cui Genco Russo, allora ritenuto un potente capomafia, è ritratto al centro di una processione in onore della Madonna dei Miracoli della sua Mussomeli? Come stupirsi se in una processione religiosa i preti non ci sono e al loro posto vi sono i ‘capibastone’ di un quartiere, di un paese? Ad Agrigento (e so di cosa parlo, perché vi sono nato) la festa di San Calogero, prima e seconda domenica di luglio, è divisa in due: al mattino la statua del Santo è portata selvaggiamente in giro da gruppi organizzati in proprio, senza l’ombra di un prete. Alla sera, al contrario, tutto si ricompone, e la statua di San Calogero procede per le vie accompagnata da vescovo e preti. Non c’è la mafia in questo caso. Ma non c’è neanche la religione. Quella di cui parla papa Francesco”.