Con il postmoderno ho da sempre un rapporto ambivalente, me ne affascinano le mirabolie ma ne riconosco troppo spesso il meccanismo a effetto, e finisco quasi sempre per derubricarne le opere a “supercazzole”. “A visit from the Goon Squad” di Jennifer Egan fa in gran parte eccezione, è composto da straordinarie soluzioni formali, il contenuto non mi è mai entrato davvero viscere ma non è mai slegato dalla forma: è una mirabile saga umana, quella raccontata nei 13 capitoli del libro, una splendida epopea contemporanea e a tratti dal sapore ottocentesco, un pastiche postmoderno pieno d’ironia che raccoglie più lezioni del romanticismo. Una costante sehnsucht permea infatti i personaggi, le cui storie s’intrecciano e si sfiorano, senza necessità d’incontrarsi davvero, restando autonomi ma interconnessi nel mosaico contorto delle loro vite irrisolte; quel che più dei contenuti è memorabile del romanzo della Egan è una gestione del tempo e dello spazio originale ma raramente fine a se stessa, l’agilità formale con cui si muove tra una narrazione in prima persona, seconda e terza persona che arriva a raccontarsi tramite slide Power Point, a mo’ di vecchio ppt in stile Windows ’98, e che racconta molto bene il quadro di droga, musica e alienazione che intende narrare, un quadro che, pur raccolto in frammenti, finisce col formarsi come univoco.
Il romanzo ha un ritmo unico, ha vivacità di tono e tecnica di racconto. Con una visione comica che controbilancia il suo senso del tragico, la Egan ha tirato fuori dalla cassetta degli attrezzi gli espedienti del romanzo postmoderno caricandoli di un sostrato emotivo non scontato, in questo tipo di operazioni.
I personaggi acquisiscono spessore pezzo per pezzo, prendono forma nei vari capitoli, anche quelli a loro non dedicati, nei quali penetrano dettagli, ed è coerente con la natura combinatoria di questo romanzo, che non pochi hanno accostato a un concept album in forma letteraria.
Tutto giustissimo direi, e dopo averlo letto nella lingua d’origine non posso che rimanere ammirato dal mirabile lavoro di traduzione di Matteo Colombo, che ha riportato in maniera plausibile alcune pagine ai limiti dell’intraducibile.
Premesso quanto sopra, l’opera della Egan fatica ancora a sedimentare nel profondo, anche in lingua originale, confermando quanto il postmoderno – in quanto sperimentazione – eserciti in me un fascino irresistibile, ma come davvero raramente riesca ad avere un forte impatto emozionale.