Al processo sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio è iniziata la requisitoria della Procura di Caltanissetta. L’intervento del pubblico ministero, Stefano Luciani.
Nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio contro il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, sono attualmente sotto processo, in primo grado a Caltanissetta, tre poliziotti, il funzionario Mario Bo, ex capo del gruppo d’indagine “Falcone – Borsellino”, e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, che si occuparono della tutela di tre falsi pentiti, Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. I tre poliziotti sono imputati di avere suggerito ai tre falsi collaboratori la versione da fornire agli inquirenti e i nomi da indicare quali responsabili della strage. La falsa verità, a cui tanti anni i giudici hanno creduto, è costata la condanna all’ergastolo a sette innocenti, poi scarcerati, e che si sono costituiti parte civile in giudizio. Ebbene, adesso, dopo 70 udienze e l’ascolto di 110 testimoni, è iniziata la requisitoria della Procura. E il pubblico ministero, Stefano Luciani, è intervenuto così: “In questo processo vi sono stati testimoni citati dalla Procura, appartenenti al gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno reso onore alla divisa che indossano: si sono trasformati in testimoni della difesa in maniera grossolana. Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere, ovvero all’Avvocatura dello Stato”. E poi Luciani ha aggiunto: “E’ stata Rosalia Basile, l’ex moglie di Scarantino, il ‘balordo della Guadagna’, a svelare le torture da lui subite nel carcere di Pianosa. Rosalia Basile l’aveva già denunciato nei mesi in cui tutto questo accadeva, mandando lettere al presidente della Repubblica, al conduttore televisivo Gianfranco Funari, alla signora Borsellino, che certo non poteva immaginare cosa stesse accadendo”. E quindi il pubblico ministero, Stefano Luciani, rievoca testualmente le dichiarazioni della ex moglie di Scarantino: “La prima volta che andai a trovare mio marito a Pianosa mi disse che Arnaldo La Barbera e altri poliziotti lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Antonino Gioè. Mio marito mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, e che, sapendo che era geloso, gli alimentavano il dubbio che io avessi l’amante. Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Mio marito mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro. Lui mi raccontava: ‘Mi hanno spogliato nudo e mi colpivano i genitali con la paletta, mi dicevano di guardare a terra e mi colpivano se guardavo a terra, e mi buttavano l’acqua gelata mentre dormivo nella cella. Tutto questo dietro la promessa: ti facciamo uscire da qui e ti diamo 200 milioni di lire”. E poi Luciani ha proseguito: “15 giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre del 1992, arriva sul tavolo del procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, una nota dei servizi segreti del Sisde, con a capo Bruno Contrada, nella quale, incredibilmente, il Sisde, anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso. Ecco dove tutto ha inizio. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, è sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti, a plurimi procedimenti penali, a condanne per traffico di droga, ed è rinviato a giudizio per la strage di via D’Amelio. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno del 1994, quando disse di volere collaborare per la strage, che è un uomo esasperato. E diventa un pentito a tavolino”.