Crescere, amare, soffrire, disilludersi, ricucire gli strappi, lenire, andare avanti.
Nelle costellazioni relazionali in cui gli individui si muovono quotidianamente come astri erratici sospinti dalla forza ignota dell’attrazione non è semplice trovare un punto di equilibrio. È un moto spesso così doloroso – quello attrattivo – che pare assurdo assecondarlo.
“Mi chiedevo quale follia spingesse gli uomini a cercarsi così violentemente per poi ferirsi con altrettanta violenza” è proprio una delle domande centrali di Non è polvere da sparo (2023, Casasirio); ma non l’unica.
L’esordio di Francesco Annarumma è infatti denso di temi attuali e scottanti, un romanzo ambientato in una Milano che è proscenio ideale per la rappresentazione di vite caotiche e turbinanti, alimentate dal continuo tentativo di anestetizzare i propri dolori e dalla necessità di mettere a tacere le proprie paure.
Un crogiolo di dolori e timori è proprio il protagonista di queste pagine, un trentenne videomaker al servizio di una delle tante agenzie di comunicazione della capitale produttiva italiana, uno di quegli alfieri della magia del marketing, responsabile di trasformare i prodotti in veicoli di sogni luccicanti, farne simboli di una vita splendida e patinata che ogni individuo sembra avere il dovere di inseguire.
Il marketing è grammatica della quotidianità, e il protagonista non si sottrae alle sue regole, i suoi mocassini Marni e i portafogli Montblanc sono parte del cifrario stilistico necessario al vivere sociale, al presentarsi splendidi per opacizzare la lente dello spioncino puntato dritto sul nostro abisso personale.
E il personaggio principale di questo romanzo evita il più possibile di guardare in quell’abisso, non riesce a sopportarne la vertigine e annebbia così i sensi in paradisi artificiali, e abbandonandosi a una sfilza di partner occasionali con i quali può reinventarsi anche ortopedico, nelle notti in cui la vista sulle cose è più sfocata; ci si può dimenticare di se stessi fino al ritorno a casa, fino al momento “che divide chi dorme da chi ha ancora sveglio, chi cerca qualcosa da chi l’ha finalmente trovata.” Fra i due gruppi, lui fa parte del primo, è un individuo in continua, irrequieta ricerca, nemmeno lui sa di che cosa. Pur professandosi “dannatamente libero”, porta dentro lo strascico di catene grosse e pesanti.
Nel tentativo di obliare amori falliti e sensi di colpa passati, il protagonista schiaccia il ricordo sotto la coltre di massicce dosi di droga e alcool, e lo vediamo procedere caotico in una catabasi che lo porterebbe allo schianto inevitabile, se non fosse per un incontro con un vecchio amico ormai dipendente dall’eroina che rimescolerà le carte. Nella solitudine delle nostre vite possiamo scegliere di non averlo, un ruolo, o cambiarlo di continuo, ma prendersi cura di qualcuno ci costringe ad assumerlo e a stare il più possibile alle sue regole.
Ritrovare quello che era ormai solo uno spettro di un passato che tentava di obliare lo costringerà a guardarsi indietro e dentro e, dandogli l’occasione di redimersi da un antico senso di colpa, devierà parzialmente il moto autodistruttivo che lo anima.
Non sarà così semplice, ovviamente: il protagonista del romanzo è diviso, appesantito, popolato da spettri del passato e paure attuali. E del resto “quando vivi sotto lo sguardo immaginario di persone assenti, la vita diventa uno specchio che riflette invariata sempre la stessa immagine”, ci dice, e questo è uno dei pesi che gli rendono difficile fluttuare e liberarsi dalle proprie dipendenze. A salvarlo in qualche modo sono spesso la sua cruda ironia, la capacità di alternare Kundera a Gossip Girl, Camus a The Crown, pur sentendosi sempre più sfigato come Paperino che vincente come Topolino.
Se in una certa misura gli eccessi del protagonista ci richiamano il Victor Mancini di un noto romanzo di Chuck Palahniuk, Soffocare, il modo in cui Annarumma tratta la drug addiction richiama alla mente l’immancabile Irvine Welsh e il Jim Carroll dei The Basketball Diaries; la disperazione di certi passaggi, l’ineluttabilità della dipendenza, richiamano i memoir di Nic Sheff, così come il senso di impotenza e il trasferimento del dolore in una sessualità convulsa, bulimica, riportano alla mente la densità descrittiva di Ellen Hopkins in Crank: drammi di umani immersi nell’urbanità contemporanea, incapaci di gestire adeguatamente relazioni, sentimenti e perfino il rapporto con se stessi, e per questo arresi al furore degli istinti: “preso dalla violenza, quella violenza che mi bagna, e mi lascia poca, pochissima energia per altro. Posso ancora uscirne?”
La domanda è già di per sé salvifica, e il protagonista di Non è polvere da sparo proverà ad affrontarla guardando negli occhi le proprie dipendenze, quella dalla droga e quella da un amore rifiutato, al punto da porre su questo tema il lettore davanti a un’altra questione fondamentale, che torna in più pagine del libro: fino a dove è lecito spingersi per amore?
Con una prosa ritmica, che restituisce il ritmo convulso di inquietudini e tormenti dei personaggi, Annarumma imbastisce una narrazione sempre sull’orlo dell’abisso, in cui dolore, amicizia, amori e solitudine si mischiano a lacrime e euforia, firmando un esordio profondo, dolente e tematicamente ricco, che parla al cuore ma non rinuncia alla riflessione su contenuti importanti e di difficile trattazione.