Babajaga, di Gaia Giovagnoli

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Baba Jaga è una figura antichissima, figura archetipica del folklore slavo, se ne hanno testimonianze addirittura sin dalla Protostoria.

Baba Jaga è una vecchia megera, una strega, dona cavalli e oggetti magici agli eroi, è madre di demoni, cavalca un mortaio, cucina i bambini, le leggende ne hanno restituito innumerevoli versioni. “Rise of the Tomb Raider” vi ha dedicato un contenuto esclusivo che porta Lara Croft sin dentro il tempio della strega.
Gaia Giovagnoli ne costruisce una completamente inedita, quella di una donna abbandonata dal suo uomo e trasfigurata dal dolore.

Potrebbe essere la semplice storia di una strega slava che terrorizza da secoli i bambini dell’est Europa, ma in queste pagine si delinea un mondo senza tempo, sospeso tra fiaba silvana e urbanità caotica, un avvicendarsi di betulle e muschi e larve bagnate che risuonano di filastrocche giocose e di lamentazioni; si racconta di una fuga, di una caccia senza pace; i versi si popolano di demoni, gatti parlanti, spettri, sentieri di chiocciole, fazzoletti che diventano laghi inaccessibili e pettini che si spezzano per farsi mura invalicabili.

Babajaga è fragile, famelica, fuori di senno, un terrore di solitudine tira le fila dei suoi passi fra le mura d’ossa della casa, la spinge su e giù per la costola delle scale, senza pace. Apre con un raschio la serratura dentata, entra nell’isba che è una calca di vuoti, è ormai infestata da colui che se n’è andato, lo sono gli oggetti, lo sono le pareti, lo sono le zampe di gallina. Lo è la donna, posseduta dall’assenza, indemoniata, immune a ogni esorcismo.

Le liriche di Babajaga (nome che va “meglio unito”, a rimarcare l’unicità del personaggio in queste pagine rispetto alla vulgata tradizionale) hanno il ritmo delle danze lesghiane, risuonano come canti di Bardi dell’Altai o di cantori delle steppe di Tuva; compongono mosaici di immagini antiche e parole impastate di terra grigia, alternano accentazioni melismatiche a canti armonici; certi versi hanno il suono roco di una risata isterica, altri si insinuano come mormorii, litanie sussurrate nel corsivo di pagine sospese nel tempo, filastrocche dimenticate.

Non è un libro di poesie, Babajaga, è a tutti gli effetti un poema ucronico, un canto ossianico, una spietata fiaba slava sospesa tra il riverbero del passato e l’ombra greve della contemporaneità.

Dopo il romanzo Chiedi se vive o se muore, uscito lo scorso agosto per Nottetempo, e presentato ad Agrigento lo scorso 9 settembre, Gaia Giovagnoli torna alla poesia con questi versi preziosi, grazie alla casa editrice Industria & Letteratura.
Babajaga ha una copertina bellissima a far da scrigno a versi delicati come foglie di cipripedio, a favole antiche come la Tundra, e a leggende proibite, tramandate a voce bassa.
Ed è uno dei testi poetici più belli che potrete leggere quest’anno.