Dopo la sentenza definitiva assolutoria al processo “Trattativa”, Giovanni Fiandaca rilancia le proprie tesi già espresse in un saggio nel 2012. L’intervento.
Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo, ex garante dei detenuti della Regione Sicilia, nel 2012 pubblicò un saggio intitolato: “Il processo sulla trattativa é una boiata pazzesca”. E fu tra i pochi a smontare da principio il teorema della cosiddetta “trattativa Stato – mafia”. Adesso, dopo la sentenza assolutoria definitiva emessa dalla Cassazione, ribadisce: “La sentenza della Cassazione conferma che questo processo non sarebbe mai dovuto esistere. E mostra le distorsioni del sistema giudiziario e mediatico. E, insomma, alla fine avevo ragione a sostenere che il processo sulla cosiddetta trattativa Stato – mafia fosse una boiata pazzesca, un pasticcio giuridico, che non si sarebbe mai dovuto fare. Per quanto possa essere compiaciuto che le mie critiche fossero giuridicamente fondate, questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana, perché è stata frutto di una indebita enfatizzazione estremistica dei pubblici ministeri: far prevalere i processi politico – mediatici rispetto a quelli giudiziari non giova al sistema democratico e neppure alla lotta alla mafia. I pubblici ministeri, con un certo pregiudizio negativo e una inclinazione moraleggiante, hanno provato a fare gli storici. Ma nelle aule dei tribunali si processano i reati, non la storia. Dovrebbe essere scontato, ma casi come questo dimostrano che così non è. Sul piano giuridico, la difficoltà principale dell’indagine è consistita sin dall’inizio nell’individuare una pertinente e plausibile figura di reato. Da questo punto di vista, un giurista come me può giungere a sostenere che l’indagine andava archiviata senza arrivare a un processo. A mio giudizio si è creata una confusione o sovrapposizione tra pregiudiziale disapprovazione etico – politica della trattativa e propensione a elevarla a delitto. E anche la stessa disapprovazione etico – politica non è scontata in partenza: se il fine di uno scambio tra mafia e Stato è davvero quello di bloccare una strategia stragista per salvare vite umane, questo scambio non è necessariamente illecito, immorale o turpe; dipende dai modi e dai contenuti. Io a causa dei miei scritti critici sulla trattativa sono stato pubblicamente definito, persino da qualche pubblico ministero impegnato nell’indagine e poi nel processo, ‘negazionista o giustificazionista’. Mi pare abbastanza grave che sia potuto accadere nel nostro Paese, come cosa pressoché normale, che fosse con questi termini discreditanti etichettato un giurista che, criticando l’impostazione giuridica di un processo, non fa altro che il suo mestiere. L’indagine ‘trattativa’ ha costituito oggetto, specie nei primi anni, di una narrazione multimediale (attraverso articoli giornalistici, trasmissioni televisive, libri, pezzi teatrali e film), che ha insistentemente veicolato nel pubblico la convinzione non solo che una trattativa tra Stato e mafia ci fosse stata, ma che costituisse anche un grave crimine. Ed è anche per questo che io ho subìto aspre critiche per aver avuto l’ardire di porre in dubbio la fondatezza del processo. In realtà penso che oggi buona parte del sistema mediatico dovrebbe fare autocoscienza e autocritica. E’ sbagliato e dannoso, per i cittadini, fornire un’informazione mediatica con modalità tali da dare per dimostrate verità giudiziarie tutt’altro che incontrovertibili. Anche per i giornalisti contribuire alla lotta alla mafia non può equivalere a sostenere acriticamente ogni processo penale per fatti di mafia”.