“Per quelli che non sono ancora vecchi, essere vecchio significa essere stato. Ma essere vecchio significa anche – a dispetto, in aggiunta e oltre a «essere stato» – che sei ancora.”
Mi piace riportare questa frase del grande scrittore Philip Roth in L’animale morente (Einaudi) , per aprire la strada ad alcune tra le varie riflessioni che uno spettacolo come Classe di ferro, in cartellone lo scorso fine settimana, al Teatro Pirandello di Agrigento, potrebbe stimolare nella mente di qualunque spettatore, giovane o “meno giovane” che sia.
I bravissimi Paolo Bonacelli, Giuseppe Pambieri e Valeria Ciangottini, interpreti di questa pièce teatrale tratta dal testo di Aldo Nicolaj scritto negli anni settanta, danno vita a tre diversi personaggi che dovrebbero incarnare uno spaccato della cosiddetta “terza età” nel mondo d’oggi.
Al di là dell’estrema delicatezza con cui viene affrontato il tema della vecchiaia e della grandezza indiscutibile degli attori, il racconto dei tre anziani pensionati che si incontrano per caso in un giardino pubblico e confrontano le proprie desolate esistenze e profonde solitudini, ciascuno con il proprio vissuto , i propri ricordi, i propri dolori ma soprattutto le proprie “pulsioni vitali” che, a dispetto dell’età anagrafica, continuano ad albergare nei loro animi, lascia l’amaro in bocca e forse sorprende e disorienta il pubblico .
Oggi parlare di “vecchiaia” non è certamente semplice .
Non sarebbe politicamente corretto, per usare un termine alla moda, definire un soggetto ultrasettantenne come “vecchio”, si preferisce indorare la pillola con termini come “maturo” o “non più giovanissimo” o addirittura “diversamente giovane” (come se la vecchiaia presupponesse sempre o fosse essa stessa una disabilità)
La vecchiaia come condizione naturale del ciclo vitale viene combattuta in tutti i modi: dalla medicina, dalla scienza, dalla cultura , dalla società che ci impone modelli di evergreen ai limiti dell’immortalità.
A volte sembriamo dimenticare che, invece, la vecchiaia dovrebbe essere sinonimo di saggezza, di profonda conoscenza, di conquistate sicurezze.
E’ anche vero ,però, che al di là dello stato d’animo che un “non più giovane” vive, e che i “non ancora vecchi non riescono a comprendere, la vita quotidiana degli anziani di oggi – padri e madri dei quarantenni odierni – non sembra certamente quella dei tre protagonisti di Classe di ferro.
Penso che gli anziani di oggi siano, per fortuna e per necessità, in molti casi i pilastri portanti della società in cui vivono.
Le statistiche di ogni genere, infatti, rilevano, in un clima di precarietà lavorativa e di mancanza di certezze e stabilità come quello odierno, in una generazione in cui per la prima volta i figli sono destinati a star peggio dei genitori, quale sia l’importanza vitale all’interno del tessuto familiare, dei nostri anziani, spesso nonni amorevoli che si sostituiscono ove possibile a baby sitter e asili, genitori attivi e in salute che aiutano e supportano in tutti modi.
In questo senso, forse, il testo di Nicolaj, scritto ormai un quarantennio addietro, mostra tutta la sua anziana età, nel mostrare lo spaccato classico dei vecchietti ai giardinetti pubblici soli e senza “nulla da fare”, ma soprattutto emarginati dalla società e dalla famiglia .
Un quadretto forse desueto, cosi come lo sarebbe quello del vecchietto sulla sedia a dondolo con la pipa e la coperta sulle gambe.
Non credo sia questo lo spaccato oggettivo, con le dovute eccezioni, degli anziani di oggi, attivi, vitali e occupati in molte attività.
É vero pero che la vecchiaia, se si è sani e ci si sente bene, è un morire invisibile, è consapevolezza di che cosa ci aspetta a breve scadenza (per concludere come abbiamo iniziato con Roth).
E in questo scorcio di ineluttabile amarezza il testo è quanto mai attuale, nel rappresentare, in tutta la sua crudeltà, la condizione di non essere, malgrado tutto, immortali.