La Procura Generale di Palermo ha impugnato in Cassazione la sentenza assolutoria al processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia all’epoca delle stragi. I dettagli.
La Procuratrice generale di Palermo, Lia Sava, e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, hanno letto le poco meno di 3000 pagine delle motivazioni depositate lo scorso 6 agosto dalla Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino, a latere Vittorio Anania, che il 23 settembre del 2021 hanno emesso la sentenza di secondo grado nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia all’epoca delle stragi del ’92 e del ’93, su sei imputati del reato di minaccia e violenza a Corpo politico dello Stato, articolo 338 del Codice penale, ossia gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, e i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Tutti assolti tranne Bagarella con pena ridotta da 28 a 27 anni, e condanna confermata a 12 anni per Antonino Cinà. Ebbene, in sintesi, secondo tali motivazioni assolutorie, il dialogo, definito “improvvido”, avviato dai Carabinieri del Ros con la mafia tramite Vito Ciancimino, e l’atteggiamento di favore verso Provenzano, moderato, a scapito di Riina, stragista, siano stati assunti e condotti a tutela dell’interesse generale dello Stato affinchè si evitassero altre stragi e quindi per fini “solidaristici”. Ancora ebbene, Sava, Fici e Barbiera non condividono il “principio Machiavellico” adottato dai colleghi giudicanti, ovvero che il fine della tutela dell’interesse generale dello Stato abbia reso necessario il mezzo per raggiungere lo stesso fine. Dunque, i tre magistrati hanno impugnato la sentenza di secondo grado e hanno presentato ricorso in Cassazione. Ed in riferimento alle conclusioni della Corte d’Assise d’Appello, tra l’altro scrivono: “Sulla base della ricostruzione dei fatti, la Corte di Assise di Appello ha contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati Subranni, Mori e De Donno, sul presupposto erroneo che gli stessi abbiano agito con finalità ‘solidaristiche’ e, comunque, in assenza del dolo – anche sotto forma della volizione eventuale e pertanto accettata – ovvero di avere agito per alimentare la spaccatura asseritamente già esistente in Cosa Nostra tra l’ala stragista e l’ala moderata, amplificando, oltremodo, i motivi dell’agire illecito. Le conclusioni a cui è pervenuta la Corte di Assise di Appello non possono dunque essere condivise perchè adottate sulla scorta di una palese erronea applicazione della legge penale ed in conseguenza, anche, di una evidente contraddittorietà del percorso logico-argomentativo, peraltro carente e sovente irrazionale. I ‘motivi solidaristici’ sono un argomento del tutto privo di agganci fattuali nella ricostruzione operata dal giudice di appello e totalmente assente anche nelle dichiarazioni rese da Mori e da De Donno. Non regge il parallelismo fra la trattativa e i reati di estorsione e sequestro di persona. Infatti non abbiamo una minaccia estorsiva in corso nella quale si inserisce un terzo che per mera solidarietà umana si mette a disposizione per agevolare, anche con il pagamento di un riscatto, la chiusura della vertenza, restituendo alla vittima condizioni di minore pregiudizio di natura economica e psicologica. Invece abbiamo degli ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che, senza alcuna investitura, sono riusciti a raggiungere gli uomini al comando di Cosa Nostra per sollecitare una risposta su eventuali loro pretese che avrebbe potuto porre termine ad una stagione sanguinaria di contrapposizione frontale con lo Stato, e così ritornare ad una pacifica convivenza fra le istituzioni della Repubblica e criminali assassini di Cosa Nostra. E’ stato deciso, senza alcun potere o investitura, di sollecitare il responsabile di gravissimi reati a chiedere cosa volesse in cambio per evitare ulteriori stragi, in violazione dei propri doveri funzionali e disattendendo precise indicazioni di netto segno contrario provenienti dai vertici istituzionali”.