“Il depistaggio è iniziato già quando Paolo Borsellino è stato a capo della Procura di Marsala”: l’intervento dell’ex collega ed ex assessore regionale, Massimo Russo.
L’ex magistrato ed ex assessore regionale, Massimo Russo, interviene a margine del dibattito storico, quanto attuale a fronte della recente sentenza, sul depistaggio delle indagini dopo la strage di Via D’Amelio. E afferma: “I depistaggi su Paolo Borsellino erano cominciati quando era ancora in vita, e come capo della Procura di Marsala aveva promosso importanti inchieste sulla mafia. Io in quel tempo ero uno dei sostituti che lavoravano al suo fianco. Mi ricordo il caso di Vincenzo Calcara, pentito molto loquace ma con tante ombre. Un giorno Calcara si presentò da Paolo Borsellino, lo abbracciò e confessò di essere stato incaricato di ucciderlo con un fucile di precisione. Solo dopo qualche tempo si scoprì che Calcara aveva inventato quella e tante altre storie. Non era vero nulla, Calcara non era nessuno nella mafia. In quel momento si stava sperimentando un depistaggio con molte analogie con il caso di Vincenzo Scarantino. Calcara è da considerare quindi un ‘depistatore ante litteram”. E poi Russo aggiunge: “La ‘confessione’ (tra virgolette) di Calcara non ha prodotto altre conseguenze, a differenza di quella confezionata attraverso Scarantino che a distanza di 30 anni continua a produrre effetti devastanti nella ricerca giudiziaria della verità”. Poi Massimo Russo interviene su ciò che a suo avviso avrebbe non certamente fomentato ma alimentato indirettamente il depistaggio. E spiega: “Si tratta di due criticità. La prima è una caduta professionale da parte dei magistrati che fino alla Cassazione non hanno saputo sventare la colossale bugia. La seconda è un debole filtro critico dell’informazione”. Poi Russo ricorda: “Al tempo in cui, da procuratore di Marsala, Borsellino rischiava di essere perfino sanzionato dal Csm per le sue denunce sul calo di tensione nella lotta alla mafia, ai giovani colleghi raccomandava: ‘Distinguere sempre le persone dalle istituzioni che rappresentano’. E’ una grande lezione civile. Borsellino non era solo il magistrato autorevole e impegnato ma anche il collega della porta accanto che aveva con i suoi sostituti un rapporto umano, gioviale e fraterno. Tra le indagini promosse a quel tempo dalla Procura di Marsala c’era anche quella sulla guerra di mafia di Partanna, affidata ad Alessandra Camassa, che raccolse il contributo di Piera Aiello e di Rita Atria. Proprio con Rita Atria, che aveva solo 17 anni, Borsellino aveva stabilito un rapporto così forte che la giovane decise di suicidarsi: con la morte di Borsellino le era venuta a mancare la figura paterna che non aveva mai avuto.
Borsellino era intanto rientrato a Palermo come procuratore aggiunto. Quasi un mese prima che fosse assassinato, io e Alessandra Camassa andammo da lui e trovammo un uomo piegato dal dolore per la fine di Giovanni Falcone. Aveva le lacrime agli occhi. Si abbandonò sul divano. ‘Un amico mi ha tradito’, disse. E aggiunse di sentirsi in un ‘nido di vipere’. Sul momento pensammo a uno sfogo segnato dall’amarezza. Quando ci rendemmo conto che in quelle parole c’era il senso di un grande dramma umano ne abbiamo riferito anche in aula ai processi. Borsellino aveva chiaro il seguito della storia. E per questo mostrò la sua condizione di un uomo molto provato”.