Il comandante nazionale dei Carabinieri del Ros, Pasquale Angelosanto: “Matteo Messina Denaro non è mai stato e non è il capo di Cosa Nostra siciliana”. L’intervento.
Matteo Messina Denaro non è mai stato e non è il capo di Cosa Nostra siciliana: parola del massimo vertice operativo dei Carabinieri in Italia, ovvero il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Raggruppamento operativo speciale, il Ros. Angelosanto, all’agenzia Ansa, spiega: “Totò Riina è stato il capo di Cosa Nostra fino alla sua morte, nel 2017, però con tutte le difficoltà dovute al 41 bis, un regime introdotto per impedire che i capimafia potessero continuare a disporre dal carcere”. Ora che sono morti è Matteo Messina Denaro il capo dei capi? E il generale risponde: “No: su questo voglio essere molto chiaro. C’è stata in un certo momento quest’idea perché la componente trapanese era stata la principale alleata della componente corleonese. Quindi con l’arresto di Riina e Provenzano qualcuno ha pensato che l’eredità fosse stata presa da lui. Ma Messina Denaro non è stato mai il capo di Cosa Nostra: è stato ed è il capo della provincia trapanese di Cosa Nostra. Ce l’ha saldamente nelle mani, ma al tempo stesso possiamo dire che c’è sofferenza anche all’interno dei mandamenti trapanesi”. Un capo criticato è anche più aggredibile? E Angelosanto ricorda: “Negli ultimi anni sono stati arrestati oltre 130 associati, ci sono stati sequestri milionari: depotenziamento della struttura militare e impoverimento dell’organizzazione. Attraverso queste due modalità di aggressione noi siamo fiduciosi di ottenere il risultato dell’arresto di Messina Denaro. Sperando che arrivi quanto prima”. E poi, in conclusione, in occasione dei 30 anni dalla morte di Falcone e Borsellino, il comandante dei Carabinieri del Ros si sofferma sulla stagione delle stragi di mafia e la reazione dello Stato e dell’opinione pubblica, e afferma: “Quel 23 maggio del ’92 ero a Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, quando arrivò la notizia devastante per tutti noi. Era stato colpito un emblema, un magistrato che era il punto di riferimento per tutti noi investigatori. Ma dopo la reazione dello Stato fu forte: da quella morte abbiamo avuto una spinta e abbiamo decuplicato gli sforzi. Quel momento è stato uno spartiacque. Ci fu una spinta ideale e i risultati arrivarono. A settembre del ’92 riuscii ad arrestare un grande latitante dell’epoca in Campania, Carmine Alfieri, capo della camorra vesuviana. Poi ci furono i grandi arresti: a gennaio ’93 Riina, poi i capi di Cosa Nostra catanese, Santapaola e Pulvirenti, nel ’94 i fratelli Graviano, a seguire Bagarella, e ancora i fratelli Brusca. Quindi la reazione fu tangibile. Quando Cosa Nostra si è resa conto che la contrapposizione feroce con lo Stato non era stata pagante, ha cominciato a cambiare strategia. Noi riteniamo che ci sia stato un ritorno al vecchio: alla sommersione. Quando si dice che la mafia senza i grandi capi è cambiata, si registra di fatto un ritorno al passato, perché l’infiltrazione dell’economia è da sempre un obiettivo: arricchirsi, e attraverso l’arricchimento conseguire il potere sul territorio” – conclude il generale Pasquale Angelosanto. Ecco come Bernardo Provenzano intervenne affinchè Totò Riina comprendesse che la contrapposizione feroce con lo Stato non sarebbe stata pagante… “Totò, quando uno si mette contro a tutti, prima o poi se la piglia nel cu…”