Il magistrato Alfonso Sabella, colui che catturò Aglieri e Bagarella, e poi Brusca ad Agrigento, interviene sulla presunta trattativa e sulle stragi Falcone e Borsellino in occasione dei 30 anni.
Alfonso Sabella, ex magistrato del pool antimafia di Palermo e oggi giudice a Napoli, è colui che ha catturato i boss Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri, e poi Giovanni Brusca, la sera del 20 maggio del 1996, ad Agrigento, a Cannatello, intorno alle ore 21:30, quando Sabella e i poliziotti lanciarono in corsa una motocicletta smarmittata davanti alla villetta sospetta, e dalla Questura di Palermo, che intercettava il telefonino di Brusca, ascoltarono anche il rumore della marmitta. Adesso Sabella interviene a seguito della recente sentenza d’Appello sulla presunta trattativa “Stato – mafia”, ed anche sulle stragi di Capaci e via D’Amelio in occasione del 30esimo anniversario. Sabella deduce dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che la “trattativa” vi sia stata, e spiega: “Come ricavo dalle formule assolutorie utilizzate, ovvero ‘per non avere commesso il fatto’, e dalle condanne dei vertici di Cosa nostra imputati, ossia Bagarella e Cinà, i giudici di Appello hanno pienamente confermato la sussistenza di quei fatti e dunque che Cosa nostra provò, minacciando, a trattare con lo Stato e che qualcuno, dalla parte dello Stato, ebbe ad accettare, almeno, di sedersi al tavolo per intrattenere quell’insolita forma di dialogo. Io stesso ho trovato e sequestrato a Formello, vicino Roma, ben oltre un quintale di semtex che doveva servire per far saltare in aria la Torre di Pisa, il simbolo planetario dell’Italia, dopo che Cosa nostra aveva messo le bombe alla Galleria degli Uffizi, la più grande pinacoteca del mondo”. E poi, sulle stragi contro Falcone e Borsellino, Alfonso Sabella aggiunge: “La strage di Capaci aveva un chiaro movente mafioso, forse non unico ma ce l’aveva: la risposta di Salvatore Riina al popolo di Cosa nostra per l’esito infausto, per loro, del maxiprocesso dopo la sentenza del 30 gennaio 1992. Quella di via D’Amelio sembrava invece motivata da ragioni ‘altre’ rispetto a una mera vendetta di Cosa nostra o a un’azione preventiva per impedire a Paolo Borsellino di diventare procuratore nazionale antimafia. Con la strage di via D’Amelio, Riina avrebbe mirato a prendere i suoi classici ‘due piccioni con una fava’, eliminando il più grande ostacolo a una possibile revisione del maxiprocesso e alzando il prezzo in quel, chiamiamolo, dialogo con pezzi dello Stato che era appena iniziato” – conclude Sabella. Ed in riferimento ai presunti co-interessi legati alla strage Borsellino e al ruolo dei servizi segreti deviati, innanzi alla Corte d’Assise di Palermo, al processo sul duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, l’ex capo del commissariato San Lorenzo, Saverio Montalbano, ha dichiarato: “Un giorno di fine estate del ‘92 mi incontrai con il dottore Pinotti, ex Capo di Gabinetto della Questura di Palermo, e mi ebbe a dire che la domenica del 19 luglio lui andò in via D’Amelio nell’immediatezza della strage e notò del personale di Polizia di Stato già lì. Io chiesi se si trattava di personale delle Volanti sopraggiunte, e quindi in divisa, ma lui mi disse che era personale in borghese. Secondo quello che dedussi da ciò che mi disse Pinotti, all’interno delle forze di Polizia ci sarebbe stata una linea non ufficiale dei servizi. Pinotti mi disse: ‘Tu lo sai come stanno le cose. Dentro la Polizia c’è il servizio, la linea occulta dei servizi’. E io gli dissi: ‘Ma che dici? I servizi cu?’ E rispose: ‘Non lo so di preciso, è un 30%’. E non ricordo se disse un trenta per cento o un terzo degli appartenenti”.