Si è protratto circa due ore l’interrogatorio di Angelo Incardona, il palmese reo confesso dell’omicidio di Lillo Saito e del tentato omicidio dei propri genitori. I dettagli.
Angelo Incardona, 44 anni, di Palma di Montechiaro, adesso è recluso in carcere, tra le mura della Casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo”, in contrada Petrusa, ad Agrigento, dove è stato condotto a bordo di una gazzella rossonera dei Carabinieri del Comando provinciale di Agrigento, dove lui, Incardona, si è recato insieme alla moglie, in automobile, da Palma di Montechiaro, per confessare quanto commesso. Lui è stato persuaso da lei a costituirsi. E così è stato. E’ indagato di omicidio, tentato omicidio e porto illegale di arma clandestina, perché ha ucciso e tentato di uccidere con una pistola Beretta 92 Fs con matricola abrasa, che ha consegnato ai Carabinieri, appena giunto in caserma. Angelo Incardona ha premeditato il suo piano sanguinoso. E poi lo ha compiuto. Ha iniziato sparando contro i genitori, scampati miracolosamente a colpi mortali. Giuseppe Incardona, 66 anni, e Alfonsa Ingiaimo, 61 anni, non in pericolo di vita perché feriti non gravemente, sono stati ricoverati all’ospedale “San Giacomo d’Altopasso” a Licata. Poi lui, Incardona, ha raggiunto la sua terza vittima designata, forse perché già a conoscenza di dove fosse. Lillo Saito, un imprenditore di 65 anni, socio di un’azienda che produce gelati, la “Gelati Gattopardo”, è stato a piedi, in cammino, verso la sua automobile, una Chevrolet Captiva, posteggiata in piazza Provenzani, innanzi al Palazzo Ducale. Appena lui è entrato a bordo, Angelo Incardona gli ha sparato diversi colpi d’arma da fuoco alla testa. Dalla Scientifica dei Carabinieri sono stati contati quattro bossoli. Poi Angelo Incardona è rientrato a casa. Poi le manette ad Agrigento. Il comandante dell’Arma agrigentina, il colonnello Vittorio Stingo, è stato subito al timone delle indagini, alla ricerca di eventuali video di telecamere di sorveglianza e ascoltando i primi testimoni. Il titolare dell’inchiesta è il magistrato Maria Barbara Cifalinò, presente per un sopralluogo in piazza Provenzani. Incardona è stato circa due ore sotto interrogatorio condotto dal procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, insieme a Cifalinò, Stingo e al comandante del Nucleo Investigativo, maggiore Luigi Balestra. E ha risposto evasivo: “E’ una vecchia storia di mafia”. I familiari di Saito e Incardona avrebbero riferito che i due non si conoscevano. Nel frattempo la salma di Saito è stata trasferita nella camera mortuaria dell’ospedale “San Giovanni di Dio” ad Agrigento, in attesa dell’autopsia. Il movente sarebbe legato ad un regolamento di conti, per diatribe risalenti nel tempo, legate non alla mafia o alla stidda ma ai “paracchi” di Palma di Montechiaro, il “paracco”, che si riscontra anche a Favara. In dialetto siciliano il “paraccu” è l’ombrello, il paracqua, ciò che difende, protegge dalla pioggia. Il “paracco” è pertanto un clan, spesso ristretto a più famiglie legate tra di loro da rapporti di parentela o affinità, che si associano per delinquere e tutelarsi a vicenda sotto lo stesso ombrello, il paracqua, il “paracco”.