A Palermo, al palazzo di giustizia, dopo brevi dichiarazioni spontanee da parte dell’ex ministro Dc Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, la Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfredo Montalto, si è ritirata in camera di consiglio per emettere la sentenza che interessa nove imputati. Si sono svolte 201 udienze. Poi lo scorso dicembre 2017 la Procura, tramite Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, ha iniziato la requisitoria, proseguita fino alla fine di gennaio. I magistrati inquirenti invocano 16 anni di carcere a carico del boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, e unico corleonese storico in vita dopo la morte di Provenzano e Riina. Poi 15 anni per l’ex comandante del Ros dei Carabinieri, il generale Mario Mori, già a capo del servizio segreto civile. Poi 12 anni di carcere ciascuno per un altro mafioso, Nino Cinà, e per altri due ex Carabinieri in servizio al Ros a cavallo del periodo di tempo incriminato, il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. E 12 anni anche per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, che attualmente sconta in carcere la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E poi 6 anni per l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza. E poi nulla per Giovanni Brusca, perché, con gli sconti di pena a favore dei collaboratori, il reato contestato, ossia minaccia e violenza a Corpo politico dello Stato, sarebbe prescritto. E prescrizione sarebbe intervenuta anche per il reato contestato a Massimo Ciancimino, il concorso esterno alla mafia, perché risalente a non oltre il gennaio 1993. Però, contro Ciancimino la Procura pretende 5 anni di reclusione per calunnia a danno dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro.