Dalla fine dello scorso dicembre, lo Stato detiene più del 50% delle quote (maggioranza assoluta) di Banca Monte dei Paschi di Siena. Pensare però che da questo momento la politica “entri” nelle logiche e nei meccanismi di funzionamento della Banca sarebbe ingenuo: in un certo senso MPS è sempre stata legata a doppio filo alla politica, sin dalla sua nascita come Monte di Pietà rivolto alle classi disagiate, per cui lo Stato poneva a garanzia dei depositi le rendite dei pascoli demaniali della Maremma (i “Paschi”, per l’appunto), fino ad arrivare a pochi anni fa, momento in cui la Fondazione Monte dei Paschi deteneva la maggioranza assoluta delle azioni della Banca. I vertici della Fondazione vengono scelti per la maggior parte dai rappresentanti della politica del luogo (il sindaco di Siena e il presidente della Regione Toscana, per nominarne alcuni), e questo stretto legame ha generato nel corso dei decenni una serie di investimenti massicci sul territorio da parte di MPS, guidati più da logiche politiche che dai principi di profittabilità e sostenibilità. Il mantenimento di questa enorme mole di investimenti ha portato i manager a intraprendere una serie di operazioni rischiose e ai limiti della liceità che, nell’ultimo decennio, hanno di fatto determinato la profonda crisi finanziaria che oggi Banca Monte dei Paschi attraversa.
Provando a ripercorrere i principali e più recenti eventi che hanno portato MPS al punto in cui si trova, incontriamo le acquisizioni folli di Banca Agricola Mantovana, Banca del Salento e Banca Antonveneta, quest’ultima solo 2 mesi dopo l’acquisto della stessa da parte di Banca Santander al 25% in meno, e che ha richiesto un aumento di capitale da 9 miliardi di euro, di cui 5,8 a carico degli azionisti; troviamo i Tremonti Bond, l’uso quasi disperato degli strumenti derivati per provare a colmare le scoperture, e infine arriviamo al 2016, al precipitoso susseguirsi di eventi che proviamo a schematizzare, e che ha di fatto determinato il destino della Banca in pochi, concitati mesi.