Il mio medico di fiducia è un amico di famiglia, uno di quelli ai quali chiediamo consiglio ogni qualvolta la nostra salute ha qualche difetto. Ricordo un giorno di aver sentito mia madre al telefono con lui: sono ottimi amici e capita spesso. Lui era confinato a letto dall’influenza, e lei gli stava consigliando i farmaci da prendere per curarsi, non lesinando tutte le raccomandazioni del caso per riguardarsi. Quel che mi stupiva non era tanto il fatto che mia madre stesse indicando per filo e per segno a un laureato in medicina, specializzato, medico stimato con decenni di esperienza, come curarsi, e dunque come svolgere il suo mestiere su se stesso, quanto il fatto che lui glielo lasciasse fare di buon grado. Non era la semplice educazione di ascoltare la noia dei consigli altrui, no, il nostro amico medico sa essere alquanto sbrigativo quando sente di perder tempo, avrebbe avuto la confidenza sufficiente per troncare quel profluvio di parole senza timore d’offendere. Ma nel tono di mia madre, nella sua preoccupazione, c’era qualcosa che andava oltre le nozioni e i farmaci che lui, per mestiere, conosceva benissimo: c’era un’attenzione, una premura, un accostamento all’altro in qualche modo già di per sé terapeutici, in quelle parole. Mi venne da pensare al magnetismo animale di Anton Mesmer, all’influenza reciproca universale degli esseri viventi e ai suoi effetti curativi. Probabilmente stava tutto lì il valore delle parole di mia madre: è una cosa a cui personalmente credo molto, il flusso di energie positive e negative tra gli esseri viventi e la loro influenza più o meno benefica.
Per questo, percorrendo le prime pagine di Zona Rossa (Feltrinelli), sono rimasto subito colpito da queste parole: «Lakka è un inferno di caldo e polvere, un intreccio di tende e recinzioni metalliche squassato dai temporali della stagione delle piogge. In questi primi giorni i pazienti muoiono spesso, troppo spesso, senza che riusciamo a capire il perché. Frustrazione, rassegnazione, impotenza: è una sorta di incubo che rischia di diventare paralizzante. Che cosa possiamo fare per queste persone, perlopiù giovani, spesso bambini, che ci muoiono davanti agli occhi in pochissimi giorni? In una riunione di coordinamento, funzionari del ministero della Sanità, dell’Oms, dei centri americani di prevenzione e controllo, di organizzazioni umanitarie, medici militari e non meglio precisati “esperti” discutono su come gestire questa devastante epidemia. Esco dall’aula un’ora dopo, ho bisogno urgente di fumare, di smaltire l’indignazione per le cose che ho sentito. “No-touch care”, si raccomanda di curare i pazienti senza toccarli. Spesso si disidratano per la diarrea e il vomito, e rappresentanti di un’organizzazione considerata “una autorità” in materia sostengono che “le infusioni endovenose di liquidi sono proibite”. Non ci posso credere, mi viene in mente il reato di “omissione di soccorso”, aggravato dal fatto che siamo medici e che siamo venuti in Sierra Leone per curare pazienti. O no?»
Gino Strada ha sempre avuto ben chiaro quale sia il dovere del medico, la militanza sanitaria della sua Emergency è ormai nota in tutto il mondo.
Molti medici si sono imbarcati con lui nella missione di «offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà».
Fra questi vi è Fabrizio Pulvirenti, infettivologo siciliano, finito alla ribalta delle cronache nazionali per aver contratto Ebola durante il suo servizio medico volontario nel Centro di trattamento per Ebola di Lakka, in Sierra Leone. Non per caso, nel libro che racconta anche la sua storia, il primo riferimento letterario – e il più azzeccato che possa trovarsi – è La Peste di Albert Camus, dove nell’algerina Orano il medico Bernard Rieux, «un uomo stanco del mondo in cui vive, avendo però il gusto dei suoi simili e deciso a rifiutare, per conto suo, l’ingiustizia e le concessioni», presta incessantemente le proprie cure agli ammalati nella città assediata dall’epidemia.
Sierra Leone, Africa: posti lontanissimi per noi occidentali, non solo geograficamente.
Con Fabrizio Pulvirenti è stato organizzato un incontro presso la sede dell’Ordine dei Medici di Agrigento per sabato 4 febbraio, grazie all’impegno di Emergency Agrigento, Circolo Culturale Danilo Dolci e Arci Agrigento, nelle persone rispettivamente di Evelyn Argento, Federica Salvo e Manlio Fiore. Mi chiedono di far da interlocutore al loro ospite. Faccio una rapida ricerca sull’opera, e accetto senza esitazioni: di solito pretendo di leggere il libro prima di dare una risposta, ma non è questo il caso, il materiale è di per sé interessante, la storia di Fabrizio Pulvirenti è ben nota tramite i media e l’attività di Emergency ha da sempre la mia attenzione.
Il libro conferma tutti i presupposti: un reportage scritto a quattro mani da Gino Strada e Roberto Satolli sull’impegno di Emergency nella Sierra Leone devastata dall’Ebola in cui si innestano sapientemente le pagine narrate in prima persona da Fabrizio Pulvirenti. Tutti i presupposti migliori per un evento ad alto contenuto. L’incontro è interessante ancor più del libro: il modo di esporre fatti e concetti di Pulvirenti è dettagliato ma non prolisso, essenziale ma chiaro, scientifico ma non accademico.
Io mi limito a guidare il filo del discorso, gli argomenti fioriscono spontanei: dalle origini dell’Ebola, che «uscito dalla foresta, ha aggredito un bambino di due anni che giocava sotto un albero infestato di pipistrelli, e da lì è dilagato, fino a conquistare un’intera regione del continente africano e a tenere in scacco e gettare nel panico per mesi il mondo intero» si passa a parlare delle attività del Centro di Emergency a Lakka, messo su secondo il principio che «un ospedale va bene quando ci faresti curare tuo figlio, sennò non va bene neanche per i figli degli altri», in linea con la filosofia di Emergency, e internamente diviso in una Zona Verde, dove soltanto il personale sano può operare, e la Zona Rossa del titolo, in cui vengono necessariamente isolati coloro che hanno contratto Ebola, e in cui il personale può entrare soltanto con grandissimi precauzioni e protezioni.
Può aver preso lì il virus, Fabrizio Pulvirenti, o forse altrove, né lui né i suoi colleghi sono mai riusciti a capire come Ebola possa essersi insinuato nell’organismo di un professionista così scafato, attento, accorto. I primi sintomi della malattia sono soltanto l’inizio di una lotta breve ma intensissima che Fabrizio Pulvirenti ingaggerà con Ebola, e che ci racconta passo passo: dall’isolamento nella sua camera sierraleonese al trasferimento all’Istituto Spallanzani di Roma, dove la lotta si fa giorno per giorno più dura, fino alla terapia intensiva, dalla quale uscirà vincitore non senza fatica.
Sono le pagine più intense di tutto il libro, quelle in cui Pulvirenti si racconta in prima persona, ed è anche il momento più intenso dell’incontro, quello in cui il medico, il “curatore” del virus, diventa “paziente”, quello che deve essere curato dall’effetto devastante di Ebola. Ma il medico non cessa mai di essere tale, dice Pulvirenti, nemmeno quando è egli stesso vittima della malattia, e così è stato in quei giorni di degenza dove, almeno nei momenti di coscienza, la sua mente scientifica è sempre stata viva. C’era semmai del rammarico per gli ammalati che si trovavano lì, nell’altro continente, dove Emergency fa quel che può con i mezzi che ha a disposizione, ma che non potrà mai essere abbastanza di fronte ai numeri spaventosi della malattia. É un segno di umanità straordinaria, quello di un medico che non abdica alla propria missione nemmeno nei momenti estremi, quando si trova a un passo dall’abisso senza ritorno. Mi vengono in mente le parole del dottor Bardamu, quando nel Viaggio al termine della notte, arrivato in Africa, si trova a fronteggiare ogni tipo di malattia: «Quando arrivi da qualche parte, ti vengono delle ambizioni. Io avevo la vocazione della malattia, solo della malattia. A ciascuno il suo. M’aggiravo attorno a quei padiglioni ospedalieri e promettenti, dolenti, appartati, risparmiati, e non potevo lasciarli senza rimpianto, loro e le loro imprese antisettiche.»
La malattia come vocazione alla cura, anche quando si è dentro la malattia.
Leggiamo alcuni passi da Zona Rossa, e poi continua a parlarsi del ruolo enorme delle organizzazioni internazionali, dei giornalisti, di quanto sia facile che queste due categorie scatenino allarmismi ingiustificati, come è accaduto per con Ebola, come sta accadendo per la meningite.
«Visto dalla prospettiva occidentale il pericolo più grave del colonialismo è la malattia, o più precisamente il contagio» dicono Toni Negri e Michael Hardt in quello che è ormai un classico del pensiero del nuovo millennio, Impero. E non è improprio parlare di colonialismo, anche nel caso della Sierra Leone del nuovo millennio: un paese in cui la malattia ha avuto modo di diffondersi più velocemente anche grazie a Stati esteri andati lì a investire con la promessa di infrastrutture che potessero migliorare la qualità di vita della popolazione, ma che di fatto hanno edificato a giovamento delle proprie operazioni commerciali, quasi sempre legate all’estrazione di risorse di cui la Sierra Leone è ricca: «Per un assurdo scherzo del destino, d’altro canto, sono state proprio le strade costruite dagli stranieri a favorire la diffusione del contagio, come se in Sierra Leone anche un simbolo modesto di sviluppo potesse dimostrarsi letale. Le infrastrutture create sono principalmente quelle che servono per lo sfruttamento delle materie prime: strade, innanzitutto, mentre nessuno sembra aver pensato alle fogne, per esempio, o alle reti di acqua potabile. E strade più facilmente percorribili significano maggiori spostamenti e contatti: dal punto di vista della diffusione di un’epidemia, più possibilità di contagio.»
A causa della sua forza devastante, Ebola non dà modo alle sue vittime di spostarsi a lungo: la partita fra la vita e la morte si gioca nell’arco di circa due settimane.
Questo, ci ricorda Pulvirenti, è uno dei motivi per cui sarebbe sciocco temere che tale malattia possa essere portata in Europa dagli immigrati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste, affrontando essi viaggi molto lunghi ai quali da ammalati non potrebbero mai sopravvivere.
Viene naturale chiedergli di Agrigento, di cosa si possa fare ancora in città: era stata promessa una Unità Operativa di Malattie Infettive per l’Ospedale San Giovanni di Dio. Da ormai 22 mesi si attende il nulla osta, ma da tempo nessuna notizia, silenzio assoluto per una formula che pare riecheggiare lontana nei labirinti del governo e della burocrazia siciliana.
Ci lasciamo con un’altra promessa, quella di saperne di più, di contattare chi ha l’incarico di renderla possibile. Perché è frustrante sentire che certi meccanismi non cambino mai.
Con le ultime domande dal pubblico termina l’incontro. Ricordo che lunedì 6 febbraio, alle ore 15, andrà in onda su Teleacras lo speciale su Zona Rossa, con un’intervista a Fabrizio Pulvirenti, e vado via.
Ritornando verso casa, penso che oggi si è parlato di medicina, ma che si è parlato soprattutto di politica. E ricordo che la peste di Camus, come quella di Lucrezio, è una malattia dell’animo prima che del corpo:
“Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”
E penso che forse è quella la nostra più grande epidemia, quella che ancora oggi dobbiamo debellare.